Ma siamo sicuri che essere sempre accigliati a causa della propria “superiorità” caffeinica faccia davvere bene alla popolarizzazione della scena d’avanguardia, soprattutto in Italia?

Reader advisory: questo è un pezzo ad alto tasso di impopolarità e per il quale abbiamo fatto ricorso a svariate semplificazioni, perché era il solo modo per dire quello che volevamo dire. Fine dell’avviso.

Abbiamo un tarlo, noi che ci occupiamo di caffè con passione e voglia di cambiare la percezione che l’italiano medio ha di questa bevanda assai più idolatrata che rispettata, ma che in questo mondo ci stiamo con un piede soltanto, perché nella vita facciamo anche altro, ché le bollette le dobbiamo pagare, epperò questo ci garantisce anche uno sguardo laico, laterale sugli impallinati dell’Arabica e del monorigine.

Urge un respiro, ché non abbiamo messo nemmeno un punto finora e chi ci crediamo di essere, Salinger?

Abbiamo un tarlo, dicevamo, che rosicchia la nostra mente da quando abbiamo iniziato a frequentare specialty coffee bar in Italia e nel mondo. Che potremmo spiegare con lunghi giri di parole, ma anche semplicemente chiedendoci: ma perché il coffee enthusiast è così antipatico?

 

Apriti cielo. Ma come ci permettiamo? Ci permettiamo, perché poi a noi gli antipatici ci stanno simpatici, e poi conosciamo delle notevoli eccezioni (vero, Carlos?), e non è che ci gira di scrivere questa cosa per ripicca. Ma solo perché vogliamo analizzare questa specialissima antropologia e capire se non è anche a causa sua se l’italiano medio (aridaje) non sembra minimamente affascinato dall’”altro” caffè (che poi è “altro” solo da noi).

Prima di tutto spieghiamo meglio cosa intendiamo noi per antipatia del barista della scena specialty (ma anche di torrefattori e divulgatori). Ci è capitato spesso, visitando i migliori locali, di scontrarci con una evidente diffidenza da parte di chi era dall’altra parte del bancone davanti alla nostra richiesta di informazioni, oppure di interviste, oppure di scambio di opinioni. Intendiamoci, nulla di illegale. Il barista tipo di cui sopra è uno che non si tira indietro se c’è da spiegare le diverse forme di estrazione, o di decantare le caratteristiche organolettiche delle varie miscele in carta. Ma tutto come se fosse un copione mandato a memoria, senza empatia, senza la apparente volontà di costruire un dialogo con chi, come noi, vuole fare dialogare le differenti culture del caffè. Abbiamo proposto collaborazioni sentendoci rispondere con uno sgrunt, abbiamo ipotizzato interviste che spesso non si sono fatte, abbiamo versato nella tazza tutto il nostro infantile entusiasmo di novizi vedendolo uscire rapidamente da mille buchi di incomunicabilità.

Due baristi e un cliente di uno specialty coffee. Nessuno ha un’espressione particolarmente espansiva

Un po’ c’è da comprenderlo. Il mondo specialty è nato (in tutto il mondo ma particolarmente in Italia) già carbonaro, figlio di un caffè minore eppure migliore. Ciò ha fatto nascere in molti attori di questo mondo la sindrome da accerchiamento. Quella che ti porta a sentirti parte di una nicchia che nicchia resterà, che ti fa sentire superiore e incompreso. Superiore certo, ma incompreso anche perché non si è fatto molto per farlo comprendere. Per nostra esperienza personale ma anche per i racconti di amici e conoscenti, il bar specialty viene considerato un luogo poco accogliente, da iniziati, in cui chi non ha le competenze per districarsi tra v60 e Panama Gesha si sente fuori posto. Un po’ quello che accade nel mondo del vino, che noi conosciamo bene, in cui il principiante volenteroso invece di essere incoraggiato è spesso spinto a sentirsi uno sfigato. Un po’ quello che accade nella ristorazione di alta gamma, che si lascia dietro molti potenziali adepti respinti non solo dall’ammontare dei conti ma anche dal senso di inadeguatezza rispetto alla gourmetiquette.

Insomma, cari baristi hipster. Non basta che giriate il mondo in cerca di monorigini sempre più profumate, non basta che andiate a fare uno stage a Melbourne per sentirvi parte dell’avanguardia e imparare le ultime tecniche di estrazione. Serve anche che siate meno accigliati, più accoglienti, più dialoganti. Il caffè se è buono non ha bisogno dello zucchero, ma del sorriso sempre.

Andrea Cuomo

Giornalista

Inviato del Giornale e collaboratore di diversi periodici nel settore wine&food