È nero, africano,
è arrivato via mare
su barconi e all’inizio
è stato accolto malissimo.
Ma oggi fa parte della cultura nazionale.
Storia un po’ buonista
(ma vera) del chicco
di Coffea.

Amanti della tazzulella, del caffè italiano, unico e solo bevibile e presentabile. Voi che vi lamentate quando siete all’estero e al momento del caffè vi rabbuiate ordinando, già rassegnati e pronti al peggio, un espresso ( che si debba specificare – come vi hanno ormai insegnato – sembra cosa dell’altro mondo: il caffè è espresso, o brodaglia). Monocaffeisti dell’estrazione unica, che ritenete il caffè prodotto italiano. Cosa nostra.
Sì, proprio voi, avete mai pensato che il caffè è nero, africano – è originario dell’Etiopia – ed è un migrante? Dall’Africa via Medio Oriente si è diffuso in tutto il mondo. È arrivato via mare, con dei barconi su cui mai noi metteremmo piede, e all’inizio non è stato accolto per niente bene: era la bevanda del Diavolo, portava malattie, allontanava dalla vera religione.
Poi, contro ogni previsione, si è integrato innestandosi sulle culture locali, tanto che ogni Paese ha un suo modo di bere il caffè, in ogni Paese si è adattato e ha portato cultura. Si dice che senza caffè la rivoluzione industriale e l’epoca dei lumi non ci sarebbero state. Perché apre la mente e la tiene sveglia, stimola il pensiero lucido anche fino a tarda notte, se serve. Nelle caffetterie di Londra sono state concepite le basi del Capitalismo, nel bene e nel male: i Lloyd’s, la Borsa di Londra ma anche la Royal Society. In un certo senso il caffè ha aiutato a formare la società moderna.

A sdoganarlo, e lo diciamo en passant, fu pare un papa: Clemente VIII, cui fu chiesto ai soliti zelanti baciapile di intervenire per operare necessaria scomunica. In quanto minava la tradizione cristiana. Ma – colpo di scena – assaggiata la bevanda leggenda vuole che il pontefice la trovasse così piacevole da concederle l’approvazione con a frase “scomunicarla? Ma questa bevanda dovrebbe essere battezzata!”. E c’è chi dice che la battezzò sul serio. Ma quel che è certo è che ne permise il consumo.

In Italia il caffè si è integrato così bene che pensiamo sia, appunto, cosa nostra. Così i nostri sovranisti all’arrivo del primo Starbucks italiani a Milano, nel settembre 2018, si sono scatenati sui social.

Matteo Salvini twittò “Due ore di coda per un caffè da Starbucks? Ma nemmeno se mi pagano! Non ho parole…”.

Giorgia Meloni per non rimanere indietro e incalzò. “Domani aprirà in Italia il primo Starbucks, catena di “caffè” americana. Mi chiedo come si faccia a preferire le loro bevande al nostro caffè invidiato in tutto il mondo”

E Diego Fusaro che per chi non lo sapesse è un “filosofo” che ha un blog sul giornale di CasaPound opportunamente chiamato “il Primato nazionale” – ribadì

“E voi andate da Starbucks a bervi il caffè cosmopolita, pecoroni! Io mangio e bevo italico, sempre” (con foto di birra e ostriche).

Del resto i fascisti di CasaPound avevano attaccato Starbucks già un anno prima quando la multinazionale della sirenetta aveva curato il verde di piazza Duomo piantando palme e banani: orrore! Al presidio sventolava un poco sintetico striscione: “No all’africanizzazione di Piazza Duomo ennesimo segno di una politica che punta alla distruzione del legame con la propria storia, le proprie origini, la propria terra”. Dimenticando che l’africano che ci ha invaso davvero è il caffè, 350 anni fa.

Un amore lungo e diffusissimo quello tra gli italiani e il caffè. Che fu sospeso solo durante il fascismo, per ragioni di autarchia. Quando il caffè fu sostituito in nome di “uno stile di vita frugale e guerriero” da disgustosi surrogati fatti di cicoria, ghiande, orzo o fichi. Quell’”orzo, lupini, favetta” che ne “I due marescialli” Totò apostrofò senza tanti complimenti con la frase storica: “ma questa è una ciofeca non è un caffè! E allora ditelo!”

Forse è il momento di aprire la mente e iniziare a pensare al caffè in modo diverso, allontanandosi da quel pensiero unico che ritiene che il nostro sia il migliore, anzi l’unico. La tradizione della miscela e dell’espresso italiano è grande e gloriosa, certo. Ma il caffè può essere anche tanto, molto di più. Provare a guardare oltre il proprio orticello permette di scoprire che c’è un mondo complesso, sotto minaccia, terribile e meraviglioso, là fuori. Oltre i confini della nostra tazzulella quotidiana.

Anna Muzio

Giornalista

Da vent’anni scrivo nell’incrocio tra turismo, food e attualità per testate di settore e non.

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