Anna mi dice: “Non scrivi più per Coffeando”.
Ha ragione.
Poi mi chiede: “Quando scrivi per Coffeando?”.
Presto, Anna, presto.
Ma questo presto non arriva mai, malgrado il tempo sia fermo immobile, il mondo sospeso in un lungo fermo immagine, tutti in una grande pausa caffè.

Ecco, il caffè. Ma che vuoi scrivere di caffè in questi giorni di morte e paura e mascherine e silenzi, ma a chi importa di V60, di monorigine, di Arabica. Il tempo è sospeso come il caffè dei bar napoletani, qualcuno di buon umore (ce ne sono ancora?) è passato e ne ha lasciati pagati a milioni, che berremo tutti insieme, stretti stretti davanti al bancone, toccandoci e parlando di pallone, quando tutto tornerà come prima. Perché tutto tornerà come prima, o quasi.

Nel mondo che verrà, nel nostro primo dopoguerra del millennio che ha ancora il cellophane attorno, avremo forse più tempo per noi. Avremo probabilmente imparato tra le grandi parentesi dentro le quali siamo, aperte per ora e chiuse chissà quando, che correre sempre non ha senso. E forse anche il caffè potrà portare avanti la sua rivoluzione, quella per un consumo più lento e consapevole, che rispetti la materia prima, scovi nuovi tempi e modi di degustazione, coinvolga tutti i nostri sensi, ci insegni ad aprire la porta a nuove esperienze senza per forza abiurare le nostre tradizioni.

Chissà quanti caffè vengono fatti in questi giorni di libertà vigilata nelle case italiane affollate di gente, malumori e pensieri. Chissà se qualcuno approfitterà del tempo ritrovato per spegnere la macchina che fa un espresso mai troppo caldo, mai troppo soddisfacente in undici secondi, per ritirar fuori la moka e lasciare che l’aroma si sparga per casa come un virus benigno. Oppure per usare finalmente quel macinino, quella bilancina, quella strana brocca a clessidra per fare l’estrazione lenta che un amico ci regalò tre compleanni fa e mai tirammo fuori dalla scatola.

Questo virus maledetto che infesta il mondo avanzato e sembra voler risparmiare, per ora, i Paesi che si intristiscono nelle retrovie, sembra volerci dire qualcosa. Sappiamo bene che il mondo del caffè, come quello dell’economia, è diviso in due: i poveri diavoli che producono, i ricchi stronzi che consumano. Noi siamo questi ultimi, ora sgomenti di fronte a una nemesi che mette in discussione quasi tutte le nostre certezze, le nostre danarose abitudini, i nostri vezzi. Ora che i poveri diavoli siamo noi, possiamo almeno sperare che alla fine di questo medioevo dell’Occidente saremo tutti migliori. E che il caffè, punto di contatto tra il lato illuminato e quello scuro della Terra, possa aiutare a costruire un mondo meno ingiusto. Nel quale bevendo il nostro primo caffè della mattina – comunque preparato – sapremo essere consapevoli di quanto siamo fortunati a sentire quel profumo perquisirci il naso e di quanto dobbiamo essere grati a chi ha coltivato le terre nebbiose dove cresce questo miracolo.

Io vado a farmi un caffè.
Anna, lo vedi che alla fine ho scritto?

Andrea Cuomo