Storia semiseria di quella cosa che chiediamo al bar, un espresso annacquato per cui paghiamo un sovrapprezzo. Oggi è questo che passa il convento. Aspettando
la Third Wave…

Un caffè, per piacere. Sta in tutta questa frase apparentemente innocua ad italiche orecchie il pensiero unico della nera bevanda, che si vuole o si pensa italiana, nel nostro Paese. In questo non volersi chiedere cosa beviamo anche più volte al giorno. In questo rassegnarci a trovarlo anche pessimo, amaro come un intruglio in certi bar, e da ingurgitare appunto come una medicina, senza piacere, male necessario per incominciare la giornata.

Uno degli aspetti del pensiero unico che impera nel caffè in Italia è ciò che, per imperscrutabile abitudine, chiamiamo “l’americano”. Che poi non è che un espresso allungato con un bricchetto d’acqua bollente, che quasi tutti i bar fanno pure pagare, qualche manciata di decimi di euro in più. Per inciso americano è l’ennesimo termine del mondo del caffè internazionale mutuato dall’italiano, come latte, espresso, macchiato, cappuccino e barista.

La sua origine è stato ipotizzato risalga alla Seconda guerra mondiale, quando i soldati americani arrivarono in Italia e, trovando la locale tazzulella troppo forte, presero l’usanza di annacquarla.

Sarà. Sta di fatto che l’Oxford dictionary definisce la parola americano con accezione caffeinica come “Bevanda di espresso diluito con acqua bollente” e ne fa risalire l’origine agli anni ’70 e allo spagnolo americano.

In realtà da noi l’uso di chiedere l’americano al bar è relativamente recente. A nostra memoria è nato dalla generazione Easyjet, dai Millennials che tra Erasmus e prezzi bassi dei voli hanno incominciato a viaggiare più spesso. Anche nei fine settimana. Prendendo l’uso d’andar da Starbucks e sostarvi per usufruire del leggendario suo wi-fi. Per lavorare o semplicemente comunicare. E la bevanda di questo nuovo stile di vita? All’estero il caffè filtro, lungo, dalla macchina, discendente di quello dei desolanti diner raffigurati di Edward Hopper e dai film e telefilm anni ’70 tipo Alice, quello versato a ciclo continuo da una svogliata cameriera in divisa rosa.

Ma la realtà è che il nostro americano non ha nulla a che la fare con il caffè americano (inteso come statunitense, per indolente sineddoche) che realmente si beve lì. È un’approssimazione, una copia sbiadita, un fare con quel che si ha in casa. Che sarebbe l’espresso. E l’acqua.

Noi, pervicacemente e stolidamente ci accontentiamo. Dell’approssimazione e pure del sovrapprezzo. Perché in fondo ci siamo rassegnati e facciamo buon viso a cattivo gioco.

Poi quando parliamo dell’americano quello vero subito partono le associazioni da soprannomi: brodazza, acqua sporca, quella schifezza lì. Dimenticando che a voler contare la caffeina il filtro ne ha più della tazzina, perché banalmente è più abbondante. E che in fondo quel che conta è la materia prima, della quale sappiamo, come sempre, pochissimo circa a provenienza e tipologia dell nostra anonima tazzina.

Anna Muzio

Giornalista

Da vent’anni scrivo nell’incrocio tra turismo, food e attualità per testate di settore e non.

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