Dall’A di Americano alla Z di Zucchero, tutte le parole per descrivere il caffè (rigorosamente casalingo) durante il Covid-19. Tra vecchi riti e nuovi consumi

Piccolo vocabolario caffeinico dell’emergenza e della casalinghitudine, chissà mai che il congelamento delle nostre vite non possa finalmente spingere qualcuno di noi a mettere in discussione i tanti luoghi comuni con cui zuccheriamo una bevanda a cui dovremmo più rispetto

Americano. No, non facce Tarzan. È l’appellativo con cui definiamo qualsiasi caffè che non sia il nostro espresso stretto. Ma è di fatto una nostra invenzione. E infatti di solito è un espresso allungato con l’acqua. E l’America che c’entra?

Barista. Di lui – ci scommetteremmo – ci mancano più i commenti sulla moviola (dal bar al var è un attimo) che la qualità della tazzina.

Capsula. Magari, ecco, avendo più tempo potremmo usarne meno e fare altri caffè. Ci proviamo?

Decaffeinato. Contenti voi.

Espresso. Mai trascorso così tanto tempo dall’ultima volta che ne avete bevuto uno al bar. Magari perdiamo la bocca a quelle note spesso troppo amare e tostate e quando torneremo a frequentare i bar faremo più caso a quello che finisce nella tazzina

Filtro. L’altro modo di bere caffè. Un mondo a parte. Tra un corso di pilates online e l’ennesima botta di aspirapolvere, potremmo anche esplorare questo territorio inesplorato.

Gesha. Varietà panamense di altissima qualità. Come dite? Che cosa c’entra con la pandemia? Niente, ma ci piace tanto e volevo infilarcelo per forza.

Home. Sweet home (insomma). Scusate ma all’acca non sapevamo davvero cosa scrivere.

Ibrik. È il bricco con cui si fa il caffè alla turca. Se qualcuno lo ha riportato entusiasta da un viaggio a Istanbul, è il momento di rispolverarlo e usarlo (e la campionessa italiana qui vi spiega anche come)

Latte art. Disegnare con la schiuma è una disciplina che non si improvvisa, ma abbiamo un sacco di tempo per gli esperimenti e magari anche i pupi si divertono.

Macinino. Ce lo avete, lo sappiamo. E non lo usate mai. Ora non avete più scuse.

Napoletana. Secondo noi è in qualche modo il punto di contatto tra il mondo delle estrazioni estreme e quello delle estrazioni lente. In molte case ce n’è una che fa da soprammobile sullo scaffale più alto. Magari tiratela giù e prima di usarla riguardatevi Eduardo De Filippo nella celeberrima scena di “Questi fantasmi” in cui dal balconcino parla con il “prufessore”.

Origine. Colombia non è Brasile, Vietnam non è Etiopia, mettetevelo in testa una volta per tutte. Possibile che in un mondo sempre più sovranista l’unica cosa la cui origine ci lascia indifferente è proprio il caffè?

Percolazione. Che non vuol dire prendere il caffè appena svegli, ma il passaggio lento dell’acqua bollente attraverso il caffè posto su un filtro. Puro piacere sgocciolato.

Quanti. Ecco, quanti caffè? Con gli arresti domiciliari sono aumentati o diminuiti. E ricordatevi il Don Raffaè di Fabrizio De Andrè: “Ah che bello cafè, pure ‘n carcere ‘o ssanno fa’”.

Robusta. La varietà meno nobile, che però a noi italiani piace tanto. Magari in questi giorni già abbastanza amari mettiamola da parte a favore dell’Arabica.

Sospeso. Il nostro tempo è come il caffè sospeso, sappiamo che è là pagato, tocca solo aspettare che riaprano i bar per andarlo a degustare.

Tazzismo. Sogniamo un’Italia in cui non si discrimini più il coffee lover per la dimensione della tazza che usa. Che nel Nuovo Mondo che ci aspetta sarà possibile?

Ultrà. Quelli del caffè sono coloro che come quello italiano non ce n’è. Uffa.

V60. Uno dei metodi di estrazione a percolazione, si chiama così dall’angolo del cono portafiltro. C’è pure su Amazon, potreste ordinarlo, tanto il tizio che consegna i pacchi ormai è vostro amico

Zucchero. Ogni cucchiaino in più sono sei minuti in più di addominali, flessioni e plank in tinello. Vedete voi.

Andrea Cuomo

Giornalista

Inviato del Giornale e collaboratore di diversi periodici nel settore wine&food